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Il calcio…Tanti bambini si chiedono cos’è il calcio appena vedono inconsapevolmente le loro prime partite: le magliette colorate, le voci, i nomi dei calciatori che inseguono e tirano calci a un pallone su un prato verde, l’enfasi che questo gioco suscita nei più grandi, e ne rimangono subito folgorati.

Il calcio, citando Arrigo Sacchi, è la cosa più importante delle cose meno importanti, e prima o poi ogni persona prende coscienza di questa cosa in diversi modi: una partita, un episodio, una squadra, un calciatore, o tutte queste cose insieme. Come spesso, anzi quasi sempre accade, la passione per il calcio viene tramandata di padre in figlio, tifando la stessa squadra, gioendo insieme nelle vittorie e rinfrancandosi a vicenda nelle sconfitte, e più si cresce più questa passione si rinsalda fino a diventare amore incondizionato dentro ognuno di noi. E questo amore è come un fuoco che va sempre alimentato, e oltre alle vittorie della propria squadra, il miglior combustibile è la capacità dei calciatori di suscitare in noi emozioni.

La storia del calcio è piena di grandi calciatori che in ogni epoca hanno nobilitato questo gioco regalando alla gente gioia, ammirazione ed entusiasmo, e di solito portavano il numero 10 sulle spalle: il numero del fantasista, del giocatore più tecnico e simbolo della squadra. 


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Juan Roman Riquelme, ‘el ultimo Diez’ è stato forse l’ultimo di questa serie di campioni e il suo soprannome ne è la dimostrazione. Giocatore sublime e unico nel suo genere, è stato il primo calciatore dopo l’infanzia a farmi innamorare del futbol sudamericano attraverso le sue gesta. Emblematica era l’accoglienza della Bombonera, su casa, ogni volta che entrava nella cancha; l’eco del “Riquelme, Riquelme, Riquelme…” risuona ancora oggi nelle mie orecchie. Dipingeva calcio ‘el mudo’ come lo dipingono solo i grandissimi, e le sue opere d’arte sono passate alla storia: il caño di tacco/suola nel superclasico, i dribbling (tunnel fintando la giocata!), le innumerevoli punizioni perfette, l’inimitabile sensibilità nel giocare con la suola, la sua capacità di mantenere il controllo della pelota sebbene letteralmente circondato da avversari, solo per elencarne alcune.

E poi Roman era portatore naturale dei valori del Boca, il simbolo nel quale il popolo Xeneize si identificava. Tranquillo, silenzioso, ma non per questo disinteressato (famosissimo el topo gigio), preferiva pensare e parlare con i piedi, unendo in questo modo la sua gente e tantissimi appassionati di calcio. In Europa il suo passaggio è stato tanto breve quanto carico di significato, non tanto per i risultati, ma per l’essenza del suo gioco. E’ stato l’incontro tra la bellezza e la pelota. Lento, tortuga dicevano di lui i numerosi detrattori, ma Roman non aveva bisogno di essere veloce, perché la sua intelligenza e la sua creatività lo erano. Dava il ritmo all’azione, dettava i tempi di gioco e impreziosiva il tutto con talento e fantasia.

Ha vinto tanto Riquelme, ma il suo lascito più importante sono state le giocate con le quali regalava allegria alla gente, e attraverso le quali tornava bambino nel potrero, solamente para jugar a la pelota e sentirsi libero; libero di mostrare che in fondo, per giocare a calcio, non bisogna essere supereroi ma solamente persone innamorate di quello che stanno facendo, come un poeta con la sua musa ispiratrice.

E allora, in questo fugace ricordo dell’ultimo diez, apprezziamo la semplice magnificenza calcistica che questo uomo, ancor prima che calciatore, ci ha donato, nella speranza che ci potranno essere in futuro altri calciatori simili lui; perché come Riquelme non ce ne saranno più.

Gracias por todo Roman!

di Leonardo Galbusera

#quevivaelfutbol


calcioargentino.it

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