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La più bella immagine di River Plate-Flamengo è la gigantografia del dolore e dell’orgoglio della squadra di Marcelo Gallardo, che non sfila la medaglia di seconda dal collo, si schiera davanti ai rivali brasiliani, e gli applaude mentre alzano al cielo la Copa Libertadores 2019, trentotto anni dopo Zico. Dopo la loro ultima volta.
Nessuna squadra poteva togliere ai campioni in carica il trofeo se non i rubro-negros, e nessuno poteva rendere così difficile il compito a Jorge Jesus se non i riverplatensi.

La prima finale unica della storia di questa competizione è stata incredibilmente giusta nella sorte che ha concesso alle due squadre in questione di arrivarvi: River Plate e Flamengo rappresentano le due espressioni massime del calcio del Nuovo Continente in questo momento, pur vivendo due storie agli antipodi: il primo schieramento è al coronamento del miglior ciclo della sua centenaria storia, il secondo sta ricominciando a meritare di avere la più numerosa e folta tifoseria che esista al mondo.
Doveroso, prima di passare in rassegna i fatti, è una duplice premessa, di cui la prima rispecchia la profonda convinzione di chi scrive: El Muñeco è il miglior allenatore in circolazione. Il River Plate ha disputato la quattordicesima finale in cinque anni. Di queste ne ha vinte dieci, mettendo fine al periodo interminabile di diciassette anni senza posizione alcuna coppa in bacheca.

La gara di Lima non è stata spettacolare quasi in nessun momento, ma l’equilibrio è sempre stato il maggior talento del River Plate dal 2014 a questa parte. I termini e il ritmo del match li ha decisi la formazione argentina, che ha sorpreso evidentemente il Flamengo. Non si sono visti gli sprazzi di luce che di solito emana il trio Bruno Henrique-Gabigol-De Arrascaeta. Il River Plate è stato praticamente sempre in superiorità numerica, ha dominato fisicamente il centrocampo avversario con Enzo Pérez ed Exequiel Palacios, chiudendo ogni linea di passaggio a Everton Ribeiro, che quasi non si è visto. Il jolly è stato De la Cruz, che ha svariato dal fronte difensivo a quello offensivo, mettendo Matías Suárez nella posizione di divenire indispensabile e sempre propositivo. Ha sognato a occhi aperti al 15′ della prima frazione di gioco Rafael Santos Borré: un’altra finale poteva essere decisa dall’intelligenza colombiana.
Dopo un ottimo torneo, a Madrid contro il Boca Juniors nella gara del secolo Borré fu assente per aver accumulato cartellini gialli, ma a colorare di cafetero il cielo del Bernabeu fu il connazionale Quintero. Quest’anno avrebbe potuto ripetersi la magia.
Pinola, poi, a trentasei anni ancora non dà calci sbiaditi al pallone: i suoi interventi hanno blindato l’arco di Armani, che non può dire di essersi preoccupato troppo.

L’errore forse è lì: il River Plate ha dominato ogni istante, ma si è poi imborghesito. Dopo il 70′ si è convinto evidentemente di aver già cucita sulla maglia la toppa di un’altra Copa, e si è rilassato al punto che Gallardo (e questo è un dato incredibilmente negativo per una hinchada sudamericana) ha dovuto chiedere a gran voce al pubblico di continuare a incitare la squadra.
La partita era morta“, dirà Enzo Pérez al termine della gara, ma mai momento fu più vivo per il Flamengo che l’89’.
Se qualcosa Jorge Jesus ha dato di indistruttibile ai brasiliani è l’anima.
Gabigol ha pagato il conto col destino e ha scritto la prima tacita regola della storia della finale unica della Libertadores: la partita finisce solo quando segna lui. Come se non fosse sazio delle 22 reti e 8 assist messi a segno in 26 partite stagionali. Con la partecipazione consueta di De Arrascaeta ha cambiato il futuro della partita a un minuto dalla fine. I quattro di recupero che ha poi concesso il cileno Tobar sono serviti solo ad aprire all’ex attaccante dell’Inter i viali della gloria.

📷GettyImages


Un Flamengo irriconoscibile ha reso giustizia alla meravigliosa stagione condotta tra campionato locale e competizioni internazionali.
Pratto è stato solo l’alter ego del giocatore visto a Madrid l’anno scorso e i cambi sono stati fatali a Napoleón.
Due minuti affinché un solo giocatore abbattesse la sua fedele e irresistibile armata.
Gabigol è stato l’unico del Mengão a toccare la coppa all’ingresso in campo: la sfiora e poi appoggia quella stessa mano sul cuore. Non è un modo spavaldo di affrontare la malasorte di chi si avvicina al trofeo prima di vincerlo, è stata solo la sua maniera di fissare un appuntamento al quale sapeva che non sarebbe mancato. Era il 23 ottobre del 1981 il giorno in cui il Flamengo alzò al cielo la sua ultima Copa Libertadores. Un destino? Se tre indizi fanno una prova: quell’anno al Mondiale per Club il Flamengo affrontò il Liverpool, e lo stesso accadrà anche questa volta se gli uomini di Jorge Jesus dovessero vincere la prima sfida in programma.

Non si può mai scegliere come perdere né si può garantire una vittoria. Si può solo giocare nel miglior modo possibile, come ha fatto il River Plate. E sperare che l’unico errore della partita non ti costi il gol che la decide, come potrà ricordare un giorno Pinola. Non si scelgono i tempi, si gestiscono i colpi, e credere di non subirne più perché il 90′ è già arrivato, è stata la pecca del River Plate. Di sé, tempo fa, il portoghese Jorge Jesus disse: “Sono il miglior allenatore del mondo, ma questo potrò giustificarlo quando vincerò la Champions League”. Non è ancora accaduto, ma ieri sera ha portato a casa l’equivalente in America. In pochi minuti è diventato il secondo allenatore europeo a poter raccontare questa storia. Prima di lui a vincere la Libertadores ci era riuscito soltanto il croata Jozic nel 1991, guidando i cileni del Colo-Colo.
Difficile dire se la misura di un trofeo sia abbastanza grande per contenere le capacità di un allenatore fino a definirlo il più grande di tutti. Forse i numeri non bastano: forse per definirsi migliore serve anche il corteo di tifosi del River Plate, che ha raggiunto la squadra in hotel e le ha applaudito. Nonostante tutto, nonostante il dolore. Forse serve che il goleador della gara dica nel post-partita, con ancora le lacrime agli occhi: “Desideravo tanto parlare con Gallardo, ma non ci sono riuscito. Sono un suo tifoso, volevo fargli i complimenti perché ha una squadra fortissima, l’unica probabilmente ad averci messo in difficoltà. Un allenatore straordinario“.

Ci sono molti modi di vincere, quasi tutti meritati e comprensibili; ce ne sono altrettanti di perdere, ma solo Gallardo riesce a farlo conservando ogni frammento d’orgoglio.

Di Sabrina Uccello


calcioargentino.it

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