2 6 minuti 4 anni

Trent’anni fa per qualcuno la notte più bella della vita. Pensa a Sergio Goycochea. Per qualcun altro, la peggiore di sempre. Pensa ad Aldo Serena, per esempio.
E per Napoli invece?

Era il 3 luglio del 1990, quando la Nazionale italiana ritenuta da molti la più forte di sempre, lasciava l’Olimpico e si trasferiva allo Stadio San Paolo. Per la prima volta dall’inizio dei Mondiali casalinghi, lasciava Roma.
Per tutto il tempo del mondo che racchiude un pallone da calcio, resterà l’incognita di cosa sarebbe successo se la partita fosse stata in un campo neutrale.

Non poteva esserlo, infatti, quello di Fuorigrotta, passato alla memoria storica come il tempio di D10S.
Parafrasando Diego, non si poteva chiedere ai napoletani di scegliere da che parte stare se bisognava compiere una scelta univoca. Dalla parte dell’Italia, in fondo, nessuno quasi li ha mai voluti.
Campioni del Nord Africa, vennero definiti una volta gli azzurri napoletani. Ed anche così, non è completamente vero ciò che la leggenda tramanda.
Non è vero che non c’era nemmeno un coro in favore dell’Italia di Azeglio Vicini. Una parte di stadio si sentiva il tricolore cucito addosso, ma la stragrande maggioranza non potè che scegliere di stare dalla parte di chi dalla sua è stato fin dal primo giorno, scendendo da una qualche nuvola per appoggiarsi sullo stesso manto verde degli esseri umani.
Maradona, che guardò sempre gli occhi dell’avversario e mai la monetina, si avvalse di Napoli, sua alleata principale, per eliminare dai giochi un’Italia, alla quale bastava l’ultimo passo per arrivare in finale. E per vincere un Mondiale, che avrebbe comunque meritato.
Era ancora lui il leader dello spogliatoio Albiceleste, ma non era più il Maradona brillante visto in Messico. Aveva bisogno della sua gente, da solo non ce l’avrebbe fatta.
Uno per tutti, tutti per uno. D’altronde, funzionava così fin dal luglio del 1984.
27,5 milioni di spettatori, con uno share dell’87,2%: nella storia della televisione nessun altro evento calcistico ha mai raggiunto gli stessi numeri.
La più grande manifestazione mistica e concreta di questo sport in un campo per forza di cose rimasto divino.

Al gol di Caniggia esulta Diego,
mentre Baresi si arrabbia.

Gli azzurri vincono il Gruppo A, battendo Austria, Stati Uniti e Cecoslovacchia. Poi battono l’Uruguay agli ottavi e l’Eire ai quarti. L’attesa della finale dell’8 luglio aumenta e sarebbero cambiate le cose se l’Italia ci fosse arrivata. Sarebbe cambiata anche la storia dell’Argentina, ma non quella di Napoli. Quella sarebbe rimasta casa di Diego e nessun italiano avrebbe mai potuto raccontare la stessa sensazione. Probabilmente l’immagine incancellabile resterà quella di Toto’ Schillaci, vera scoperta di quell’edizione dei campionati del mondo.
Tuttavia, si gioca in porta il 3 luglio.

Nei 90’ nessuno s’impone: è 1-1 tra Italia e Argentina. Schillaci da una parte, Caniggia dall’altra. I padroni di casa si sentono già al sicuro: li attende la roulette dei rigori, ma Walter Zenga era imbattuto prima di quella sfida e considerato da anni il migliore al mondo. Dall’altra parte c’è Sergio Goycochea, del quale si è imparato a scrivere il cognome solo dopo quella sera.

Passerà nella mente di tutti la sua immagine di killer delle Notti Magiche, l’ultimo 45 giri di successo prodotto dall’Italia. Goycochea era supplente prima del 3 luglio, convocato da Bilardo più per romanticismo che per necessità. Insieme a Pumpido, infatti, il Ct voleva ricomporre la coppia di estremi difensori che aveva fatto le fortune del River Plate. I due giocatori si erano separati da poco, con Goycochea trasferitosi in Colombia, ai Millonarios. Proprio quell’anno il campionato nazionale era terminato in anticipo, sospeso e poi annullato a causa della morte dell’arbitro Àlvaro Ortega, commissionata dal narcotrafficante Pablo Escobar.
Tuttavia, il San Paolo è un luogo un po’ magico e un po’ stregato. Già condannato da diversi episodi, Pumpido lascia la Nazionale per un infortunio che gli varrà la frattura di tibia e perone.
Addio Mondiali.
Sembrava questo il destino del portiere e anche quello dell’Albiceleste, poco speranzosa quando in campo entra Goychocea a fronteggiare i rigori per l’Italia.

Donadoni fallisce il rigore:
inizia lo show di Goyco

“Se un rigore viene calciato negli ultimi 60 centimetri della porta è imparabile. Se è al di qua degli ultimi 60 centimetri, si può parare”.

Questa è la teoria di Goyco sui rigori. Se l’avrà davvero applicata quella notte, forse, non si saprà mai.
Intanto, 4-5 per i sudamericani.
Gli argentini segnano tutti, per l’Italia Baresi, De Agostini, Baggio. Donadoni e Serena vengono frenati dalle parate di un uomo che sarebbe rimasto sconosciuto. La sua carriera, infatti, non proseguì alla grande: Paraguay, Brasile, Francia e il ritiro con il Newell’s Old Boys.
Dalla Nazionale, invece, sarà addirittura cacciato dopo un per 5-0 al Monumental con la Colombia e minacce di morte, sebbene avesse vinto nel frattempo due Copa América e una Confederations Cup.

Ma questa è stata un’altra storia, quello invece era ed è il San Paolo di Napoli, di Diego.
Dove tutto è possibile, dove si perde il sonno o si sogna per sempre una notte da eroi.

di Sabrina Uccello


calcioargentino.it

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è cropped-cropped-filigrana-1-1.png

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Libertadores