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Mundial 1978, desaparacidos, dictatura militar, once jugadores y una Copa ganada. La storia sociale e del futbol argentino nel periodo più oscuro, raccontata da Raffaele Cirillo, autore di ‘Il gioco e il massacro‘. Un libro che tenta di far luce sul quel funesto periodo caratterizzato da torture di regime e papelitos. Con lui abbiamo avuto una interessantissima chiaccherata. E per questo lo ringraziamo.

Esce oggi nelle librerie l’ultimo tuo lavoro: ‘Il gioco e il massacro’ edito da Fila 37, libro che narra i numerosi episodi extra e intra calcistici avvenuti nell’anno del Mundial ’78. Nella tua superba narrazione tratti il delicato argomento con grande rispetto, lasciando al lettore il giudizio finale. Cosa ti ha spinto a scrivere su questa maledetta vicenda?

Grazie a voi e complimenti per l’accuratezza e la passione con cui raccontate, attraverso il vostro blog, le vicende del calcio argentino. La vicenda di Argentina ’78 è una di quelle cose che colpiscono profondamente chi ama il calcio e ne interpreta l’essenza come gioco del popolo per il popolo. Allora senti proprio il bisogno di entrarci dentro, di conoscere, di provare a comprendere. E poi un uguale bisogno di raccontarlo anche tu, per dare il tuo contributo affinché gli altri possano provare a comprenderne il senso. Certamente già prima di quel mondiale, al calcio capitava di vivere sotto lo schiaffo del potere e del mercato, e la sottomissione a certe logiche e dinamiche -nella mia prospettiva- non può certo fargli bene. Argentina ‘78 evidenzia certe storture nel modo più clamoroso possibile. Vista l’evoluzione che ci ha condotto fin qui, secondo me raccontarlo e ricordarlo oggi può servire a mettere in una diversa luce anche determinati aspetti controversi del calcio contemporaneo, e a farci capire che c’è bisogno di spendersi per salvaguardare la nostra passione. Il problema della sottomissione a certe logiche e a certe dinamiche che io reputo perverse oggi persiste, anche con una certa urgenza. Giusto per dirne una: il mondiale organizzato in Qatar è quasi alle porte. Ma se ne potrebbero dire molte altre.

Quando si pensa ad Argentina 78 viene subito in mente la figura del generale Videla e le braccia alzate dei giocatori argentini tra i papelitos del Monumental. Ma scavando più in profondità si scopre che i giocatori erano probabilmente le prime vittime del regime. È davvero così?

L’Argentina tutta era vittima della dittatura. Anche chi non ne era consapevole e magari la vedeva addirittura di buon grado. Se ti opponevi, rischiavi di finire in uno dei loro centri di tortura. Quando con la tortura non riuscivano a estorcerti informazioni a loro utili (utili a trovare qualcun altro da rapire e a sua volta da torturare), oppure per loro continuavi a rappresentare una minaccia, o semplicemente per vendetta, ti caricavano su un aereo e ti gettavano nel Rio de la Plata. Ne sono scomparsi almeno 30000. E intanto il popolo tutto, che si opponesse o meno, in quegli anni si impoveriva sempre di più, a beneficio dei militari, di alcune classi sociali privilegiate e delle multinazionali straniere.

I campioni del mondo devono per forza sentire che quella vittoria gli è stata rubata. Menotti diceva “giocate per il popolo, non giocate per quei figli di puttana”, ma la loro vittoria appartenne anche alla junta. Ancora oggi, in qualsiasi parte del mondo, essi si trovano a doversi giustificare per essere scesi in campo, per aver indossato la divisa albiceleste. Anche se poi, nel resto del mondo, in quell’occasione furono quasi tutti a far finta di non vedere e di non sapere.

(…) ‘Ubaldo era uno di quelli che la propria vocazione la scoprono per caso, ancora adolescenti. Ma tanto prima o poi sarebbe successo comunque, perchè uno che diventa il portiere campione del mondo, portiere ci deve essere per forza nato.’

Il gioco e il massacro

L’Argentina vinse il mondiale (anche) grazie al potere militare. Ma il Flaco Menotti era di sinistra come lo erano altri giocatori nella Seleccion. Come fu possibile questa convivenza?

La vicenda del Flaco Menotti occupa uno spazio importante nel mio racconto. Provo a indagarlo dal mio punto di vista, aiutandomi con quelle che sono state le sue dichiarazioni, le sue spiegazioni, negli anni successivi. In questa sede vi posso dire che il nucleo centrale della sua difesa è che se avesse rifiutato, se avesse abbandonato la sua selección, essa avrebbe finito ancora di più per identificarsi nella squadra della junta. Lui dice di aver fatto quello che ha fatto per sostenere la causa del “calcio di sinistra”. Nel libro provo anche a spiegare cosa rappresenta per lui questa locuzione. Non rinunciando ad analizzarla anche criticamente.

«Se loro hanno vinto, noi abbiamo perso». Oltre al futbol, parte indispensabile della vita quotidiana argentina, racconti attraverso varie testimonianze l’orrore di storie umane spesso terminate tragicamente. Non tutti gioirono di quel titolo conquistato dalla junta.

Si tratta di una citazione di Graciela Daleo, detenuta in quei momenti al centro di tortura dell’ESMA, che distava meno di un km dal Monumental di Buenos Aires dove l’Argentina giocò le partite del girone eliminatorio, e dove si giocò la finale. Poter disporre della testimonianza dei sopravvissuti, di chi le torture le ha subite, per me ha rappresentato un aiuto fondamentale. Graciela ha testimoniato anche in un processo a Roma contro i suoi aguzzini, tra cui Acosta e Astiz. Anche da quella testimonianza ho tratto le informazioni per raccontare come in quei momenti lei e i suoi compagni proprio non potevano pensare al futbol.

(…) ‘Sai come disse Berti Vogs, capitano della Germania Ovest? «L’Argentina è un paese in cui regna l’ordine. Non ho mai visto alcun prigioniero politico». Li avevano chiusi per bene, infatti. A proposito della questione del potere e degli affari, l’Italia è davvero… insomma, guardare all’Italia potrebbe far capire molte cose. Licio Gelli, come saprai, era a fianco di Massera anche alla finale.’

Il gioco e il massacro

Hai trovato resistenza da parte degli argentini a parlare di questo argomento delicato?

Devo dire di no. Nel racconto vi è un personaggio di origine argentina che, nella finzione narrativa, mi aiuta a tenere il filo e a dare soprattutto una prospettiva politica al racconto. Nel libro si chiama Armando, esiste davvero e, malgrado la costruzione narrativa in cui l’ho coinvolto, devo dire che mi ha aiutato realmente.

Uno degli episodi più significativi descritti nelle tue pagine, data anche la particolare carica emotiva, è la ‘camminata’ delle ‘Madres’ dei desaparacidos in plaza de mayo, nel giorno stesso della partita inaugurale. Hai avuto modo di incontrarle?

Personalmente no. Mi sono avvalso però dei loro racconti e della loro testimonianza attraverso fonti documentali citate nel libro. In rete è ancora presente il video dell’intervista che andò in onda nella tv olandese, il giorno dell’inaugurazione del mondiale, mentre davano vita alla loro consueta “camminata”. La junta non risparmiò neanche loro. Loro continuarono a lottare e a non arrendersi, a reclamare i loro cari e la libertà per il popolo, davanti agli occhi di tutto il mondo.

Non solo politica. È anche il racconto delle avventure futbolere dei protagonisti che iniziano a prendere piede nella Seleccion del Flaco. Da Gallego a Valencia, come da Kempes ad Houseman. Tante storie incredibili intrecciate tra loro, unite da un sogno comune: quello di vincere la prima volta la Copa del Mundo. La domanda sorge spontanea: senza il contesto della dittatura militare, l’avrebbe vinto lo stesso il Mundial, el Flaco Menotti?

Non sarei in grado di rispondere con un sì o con un no. Si tratta di un dubbio che attraversa le pagine del libro e anche la coscienza del Flaco. Scaturisce soprattutto dai dubbi relativi alla partita Argentina-Perù, che consentì l’accesso dell’albiceleste alla finalissima. Il Brasile aveva giocato prima, l’Argentina affrontò i peruviani dovendo ottenere un risultato che per la differenza reti le consentisse di prevalere in classifica sui verdeoro. Andò a finire nel modo più prevedibile e nel libro rendo conto dei sospetti e delle ammissioni che nel corso degli anni pure sono venute fuori. Tuttavia racconto anche dell’indiscutibile valore sportivo e della forza tecnica, tattica e atletica di quella squadra. Racconto i protagonisti che scesero in campo, quelli noti e quelli meno noti. Racconto anche qualcuno che in campo non scese, come Hugo Gatti, Bochini. Parlo di Diego Armando Maradona. E parlo del lobo Carrascosa, che doveva essere il capitano e avrebbe alzato la Coppa, ma quel mondiale proprio non lo volle giocare.

(…) Poco prima della fine Bertoni realizzò la spettacolare rete del 3 a 1 con una mirabile conclusione da fuori area. Figuriamoci se non era sufficiente a non esaltare il pubblico della Bombonera, che quindi si schierò senza appello: «Menotti no se va, Menotti no se va». Il giorno dopo la stampa si accodò: «Menotti è l’uomo giusto».

Il gioco e il massacro

Quanto è durato il periodo di ricerca interviste e raccolta materiale?

Diversi mesi. E in realtà è terminato solo con la fine del libro. Man mano, anche mentre scrivevo, sentivo l’esigenza di approfondire meglio qualcosa. E allora cercavo di nuovo, trovavo, magari cambiavo anche punto di vista, e riscrivevo.

Come ti ha cambiato a livello personale questa esperienza?

Mi ha fatto acquisire maggiore consapevolezza. Sia politica sia storica sia rispetto alle logiche anche del calcio contemporaneo. E mi ha fatto venire una voglia ancora maggiore di lottare, con i pochi strumenti che posseggo, per contestare e contrastare ciò che non mi piace e continuerà a non piacermi. Nel calcio e in tutto il resto.

Bene, siamo arrivati alla fine di questa intervista. Ti ringraziamo molto Raffaele per la tua disponibilità nei nostri confronti, ma soprattutto ti siamo grati per la passione che hai infuso nel libro nell’affrontare argomenti particolarmente delicati. Salutandoti, ti auguriamo i migliori successi a livello personale e commerciale.
Muchos Exitos Raffaele!

Grazie per questa possibilità e per aver dato spazio a me e al libro.


calcioargentino.it

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